Chi ha paura della primavera?

Chi ha paura della primavera?

E’ primavera, svegliatevi bambine, alle Cascine messer Aprile fa il rubacuooor” intonava Rabagliati nel lontano 1941. E ancora oggi, verso il 20 marzo o giù di lì, ci ritroviamo a canticchiare per strada queste poche ma memorabili note.

Sì, è arrivata la primavera! Le giornate si scaldano e si allungano, e via con i luoghi comuni, che se sono tali un motivo ci sarà! Famoso è il detto: Primavera fa rima con allergia. Ah, non fa rima? Forse no, ma di sicuro, purtroppo, corrisponde a sacrosanta verità.

La bella stagione che è appena cominciata non è tale per chi è ipersensibile ai pollini: quasi dieci milioni di italiani sono ormai da anni abituati a convivere con sintomi più accentuati e duraturi. Al di là della pianta che è causa del problema, infatti, oggi l’impollinazione è un processo più lungo e intenso. La causa è da ricercare nell’aumento delle temperature durante l’inverno. Meno è rigido il periodo compreso tra dicembre e marzo, tanto più accentuate sono le allergie primaverili. Una dimostrazione di quanto il cambiamento climatico in atto abbia ripercussioni dirette sulla salute

Sono sempre di più gli studi che ipotizzano che la causa di questo trend possa risiedere (anche, ma non solo) nel riscaldamento del Pianeta, come effetto del crescente inquinamento atmosferico. Nei luoghi in cui la qualità dell’aria è peggiore, d’altra parte, i numeri delle allergie sono più elevati.

Entro il 2100 la quantità di pollini prodotti durante le fioriture potrebbe aumentare del 40%, secondo nuove ricerche, rendendo urgente la necessità di capire meglio quali siano i fattori che determinano tale aumento. Se da un lato siccità e ondate di calore danneggiano foreste e pascoli, alcune graminacee, piante infestanti e anche alcuni alberi che producono pollini allergenici prosperano in presenza di temperature più alte e maggiori concentrazioni di anidride carbonica, diventando più grandi e producendo più foglie.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che entro il 2050 metà della popolazione del pianeta soffrirà di almeno un disturbo allergico. L’aumento previsto è dato non solo da una maggiore concentrazione dei pollini, ma anche dai tanti modi in cui gli elementi chimici delle sostanze inquinanti interagiscono con essi. Gli agenti inquinanti, infatti, distruggono la parete cellulare dei pollini, frantumando i loro granuli, relativamente grandi, in particelle di dimensioni inferiori al micron che possono penetrare più in profondità nei polmoni e sono più pericolosi per i soggetti allergici. Inoltre, le sostanze inquinanti possono aumentare la capacità del polline stesso di innescare la reazione allergica.

Studi condotti in laboratorio dimostrano che un aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera porta a pollini contenenti più proteine allergeniche, che sono quelle che provocano la produzione degli anticorpi responsabili dei sintomi fisici della reazione allergica.

Rimangono aperte molte sfide e molto lavoro da fare, difatti i pollini attualmente vengono misurati e monitorati molto meno di qualsiasi altro inquinante atmosferico. La strada da intraprendere da subito, con urgenza, sembra dunque essere quella “nella direzione dello sviluppo di strumenti migliori per comprendere in che modo i pollini potrebbero cambiare in futuro e aiutare le persone a prepararsi al meglio ai relativi impatti sulla salute”.

Qualche buona notizia, per favore! Sembra ci siano, fortunatamente: diverse aziende stanno sviluppando tecniche di intelligenza artificiale per automatizzare il conteggio, rendendolo più efficiente, e quindi maggiormente “monitorabile”. Dunque, la tecnologia che, di nuovo, corre in soccorso della salute del cittadino.

Perché l’obiettivo di tutti noi in fondo è uno: allontanare la paura dell’arrivo della primavera, per poterci solamente godere in santa pace quei giorni di rinascita e rigoglio della natura: a marzo, aprile e maggio voglio solamente gioire! Perché poi si sa, arriva giugno con la torrida estate, e comincia tutta un’altra storia.

2023: Odissea nello spazio green

2023: Odissea nello spazio green

Oh, il cinema, quanto ci piace! La magia del grande schermo quando si spengono le luci della sala o il relax del divano di casa di fronte al nuovo 75 pollici non hanno rivali. Nessuno può toglierci il piacere di guardare un film in santa pace, che sia un classico senza tempo o una novità imperdibile. Ma ci siamo mai chiesti che impatto può avere la produzione e la realizzazione di un’opera cinematografica, sia essa una piccola produzione indipendente o un kolossal hollywoodiano?

Il mondo del cinema fa sul serio con l’ecologia? Quanto va a danneggiare l’ambiente? Domande lecite, che necessitano chiarimenti. Proviamo a fare chiarezza.

Secondo “Albert”, un’organizzazione ambientale creata per analizzare il livello d’inquinamento delle produzioni audiovisive, il principale impatto ambientale dell’industria cinematografica è dovuto proprio allo spostamento della troupe e dell’attrezzatura necessaria, che avviene per lo più su gomma. In questo settore, il trasporto è infatti la categoria maggiormente responsabile delle emissioni di CO2 e del consumo di energia. Per dare un metro di paragone a questi dati, la produzione di un’ora di contenuti di televisione britannica emette 13 tonnellate di anidride carbonica, più o meno la stessa quantità generata da un cittadino statunitense medio in un anno. 

Oltre a questo impatto legato ai trasporti, si aggiungono l’utilizzo giornaliero di materiale usa e getta sul set – come i contenitori in plastica monouso in cui vengono serviti i pasti a tutta la troupe – o gli oggetti di scena che devono essere sostituiti dopo ogni take – come quelli distrutti o gli alimenti consumati come da copione.

Infine, altro grande problema è legato al deturpamento dei paesaggi naturali, che va dalla costruzione di enormi set lasciati in piedi per anni – come intere città erette in Nuova Zelanda per la saga del Signore degli Anelli di Peter Jackson – ai danni provocati agli ecosistemi durante e dopo le riprese di un film. L’esempio più tristemente noto è quello della Maya Bay nelle isole Phi Phi in Thailandia, set del film “The Beach” di Danny Boyle: prima delle riprese la produzione abbatté una parte della vegetazione per ingrandire la spiaggia e piantò circa cento palme per rendere il paesaggio più in linea con l’idea occidentale di luogo esotico. 

Ma le cose stanno fortunatamente cambiando, c’è una maggiore coscienza e attenzione. Di certo un passo decisivo del mondo scintillante della cinematografia mondiale verso un minore impatto ecologico è stato compiuto con le “certificazioni green”. Cosa sono? Si tratta di comportamenti da tenere nella realizzazione di un’opera.

 

E cosa è necessario fare per avere una certificazione green per il proprio film?

 

1 – Assicurare una riduzione efficace dell’impatto ambientale dell’Opera Audiovisiva.

2 – Utilizzare esclusivamente energia elettrica fornita attraverso allacci temporanei alla rete di distribuzione.

3 – Utilizzare esclusivamente apparecchi illuminanti con tecnologia LED.

4 – Ridurre le emissioni inquinanti derivanti dal movimento di mezzi di trasporto motorizzati.

5 – Ridurre l’impatto ambientale legato agli alloggi della troupe.

6 – Garantire ai membri della troupe un’alimentazione salubre e di qualità nel rispetto dell’ambiente.

 

Per promuovere e sostenere il cinema “green sono nati anche premi e manifestazioni ad hoc. Come, per esempio, Il Green Drop Award, nato nel 2012, che assegna premi ai film che interpretano meglio i valori dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile. Il Green Drop Award non è solo un premio ai meriti artistici ma anche un riconoscimento che vuole segnalare al pubblico quelle opere che aiutano ad aumentare la nostra consapevolezza per uscire dalla crisi ecologica

In Italia emerge Il Festival CinemAmbiente, con l’obiettivo di presentare i migliori film e documentari ambientali a livello internazionale. È ormai la più importante manifestazione italiana dedicata ai film a tematica ambientale.

 

E se volessimo concentrarci sui film veri e propri? Quali sono i film green che ci sono rimasti nel cuore?

 

Un posto sul podio è sicuramente occupato da ”Erin Brockovich”, un vero e proprio cult, che valse un premio Oscar alla meravigliosa Julia Roberts. Un film di denuncia imperdibile che si basa sulla vera storia della piccola cittadina di Hinkley, in California. I suoi abitanti sono stati colpiti da svariate terribili malattie e sofferenze, a causa della contaminazione delle falde acquifere ad opera di una importante e spregiudicata compagnia americana. Erin Brockovic, una giovane donna disoccupata ma intraprendente, riuscirà a far loro ottenere un risarcimento e, soprattutto, giustizia.

Il film del 2007 che Sean Penn scrisse e diresse, “Into the wild”, è un lungometraggio basato sulla storia vera di Christopher McCandless, giovane proveniente dal West Virginia, che subito dopo la laurea abbandona la famiglia e intraprende un lungo viaggio di due anni attraverso gli Stati Uniti. Penn gioca di forti contrasti nell’alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati al costante senso di vuoto del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell’enormità della natura. Ecologismo filosofico.

Di certo il film green più attuale e di moda (grazie ai milioni di visualizzazioni sulla piattaforma Netflix) è di per certo il recentissimo “Don’t look up” con Leonardo Di Caprio, da sempre paladino dell’ambiente, e Jennifer Lawrence. È un film, in una chiave amaramente paradossale e comica, sulla fine del più umano degli istinti, quello di sopravvivenza. Non a caso, è un film sulla fine dell’umanità dove l’umanità stessa non pare avere alcuna intenzione di salvarsi o farsi salvare. 

In questa speciale (e personale!) classifica non può mancare il docu sulla paladina mondiale dei diritti green. “I’m Greta”, un documentario biografico che segue l’attivista svedese Greta Thunberg nella sua crociata internazionale per convincere la gente ad ascoltare gli scienziati sui problemi ambientali del mondo. Nell’agosto del 2018, Greta, una studentessa svedese di quindici anni, davanti il Parlamento svedese comincia uno sciopero per manifestare contro il cambiamento climatico, che nel giro di qualche mese si trasforma in un movimento globale, rendendola un’attivista di fama mondiale. Il documentario segue Greta dal suo primissimo giorno di protesta fino all’incredibile viaggio in barca a vela verso New York per presenziare al Summit sul clima dell’ONU.

Un film nel nostro cuore è di sicuro “Captain Fantastic”, interpretato da Viggo Mortensen. Un uomo laico e fuori dagli schemi che cresce la sua famiglia tra i boschi dello stato di Washington, lontana da junk foodconsumismo e ostentazione. Ma quando una tragedia colpisce la famiglia, Ben è costretto a lasciare la vita che si è creato e affrontare il mondo reale, fatto di pericoli ed emozioni che i suoi figli non conoscono. Non è un film che tratta direttamente di ambiente. Ma ci aiuta a rispondere a una domanda: il nostro stile di vita è davvero frutto delle nostre scelte?

E In Italia? Ci piace citare un documentario piccolo, ma che quando uscì, nel 2007, fece molto scalpore. Si tratta di ”Biutful Cauntri, realizzato nel 2007 da Esmeralda Calabria, Peppe Ruggiero e Andrea D’Ambrosio. Il lungometraggio mostra i problemi in Campania causati dall’ecomafia, dall’inquinamento da polveri di amianto e la conseguenza sull’agricoltura e sull’allevamento, in particolar modo quello di pecore.

È evidente che, nonostante tutte le difficoltà che ci possono essere, il mondo del cinema sembra ci stia provando ad essere meno impattante sul sistema ecologico. Il compito è arduo, come in tutti gli altri campi lavorativi, ma i segnali sembrano buoni. E allora, W il cinema che strizza l’occhio al mondo green!

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