Mammamia è una Sushimania

Mammamia è una Sushimania

Ormai è un dato di fatto, la tanto amata e celebrata cucina italiana non ha più l’esclusiva sulle nostre tavole. Ci stiamo lasciando sedurre da piatti esotici, provenienti da paesi lontani: da quelli piccanti del “messicano”, a quelli speziati dell’”indiano”, da quelli saporiti del “cinese” fino a quelli agrodolci del Marocco. E i ristoranti sono sempre pieni! Ma c’è una cucina che spazza via tutte le altre concorrenti dal cuore e dal palato di noi italiani: quella giapponese. È ormai a tutti gli effetti Sushimania, dove a farla da padrone sono il salmone e l’avocado. Quanto li amiamo! Specialmente uniti in un sol boccone, magari bagnati dalla soia, zeppa di wasabi.

Ma questa nuova moda culinaria ha un prezzo? Certo che sì, e non solo economico, ma soprattutto sul piano della sostenibilità. Quanto danno recano le coltivazioni di questi due “fenomeni da ristorante” all’ambiente mondiale?

Cominciamo con l’avocado.

Sarà complice il nome esotico e il sapore delizioso, ma questo frutto è arrivato sulle nostre tavole e, soprattutto, nei menù dei ristoranti, per cui ormai un brunch domenicale non è tale senza un avocado toast, sia nella versione “veg” che abbinato al salmone. Il successo di questo alimento nasconde, però, ombre non indifferenti. In primis, la grande quantità d’acqua richiesta per la sua coltivazione, secondo, quanto calcolato dall’Università di Twente nei Paesi Bassi, la produzione di avocado ha un costo idrico molto elevato. Si stima, infatti, che 500 grammi di frutta richiederebbero 272 litri d’acqua, considerando che una mela di 100 grammi ne necessita 70 e la lattuga 20. Inoltre, la domanda europea, costante e in crescita, sta mettendo seriamente in difficoltà le aree agricole dei paesi di coltivazione, prevalentemente il Sudamerica. In dieci anni (2012-2022) la produzione è quintuplicata, le esportazioni decuplicate e moltissimi terreni dedicati a più tipi di coltivazione differenti sono stati trasformati in monocolture. In più, in tutta l’America Centrale e Meridionale, l’aumento di domanda di avocado dall’estero ha fatto sì che anche molte terre vergini e foreste fossero trasformate in piantagioni.

Tuttavia, esistono delle alternative sostenibili sia dal punto di vista ambientale che umano.

Primo aspetto da considerare è la stagionalità: la raccolta dell’avocado comincia a ottobre per le varietà Zutano, Fuerte e Bacon e prosegue con la Hass (quella oggi più diffusa) da gennaio fino ad aprile, al massimo fino al mese di maggio. Questi sono i periodi in cui è possibile acquistare e consumare avocado fresco, durante il resto dell’anno è molto probabile che il prodotto che troviamo nel supermercato non sia effettivamente sostenibile.

Anche la provenienza del frutto può aiutarci a scegliere un alimento che ha meno impatto sull’ambiente. Infatti, non esistono ragioni per cui l’avocado non possa essere coltivato lontano dal Sudamerica: ne sono testimonianza i 10.000 ettari di terreni ad esso dedicati in Spagna e i 260 ettari in Sicilia. In questa Regione si è scelto di investire in un prodotto biologico, di qualità e sostenibile.

Tocca adesso al salmone, e anche con questo animale così particolare, la storia non cambia.

Un salmone selvatico, grazie alla sua alimentazione naturale, ha carni di un colore rosato e uniforme, e nasce con l’incredibile propensione che lo porterà a risalire lo stesso fiume in cui è nato. Questo suo comportamento, insieme al fatto di aver vissuto tutta la vita in mare aperto, determina un basso tasso di tessuto adiposo. I salmoni di allevamento, invece, non godono di queste caratteristiche. Nutriti con mangimi a base di altri piccoli pesci, cereali e soia, la loro carne è molto più sbiadita. Questo non è ammissibile in un mercato che utilizza il colore della carne come primo criterio di valutazione della qualità del salmone. Ecco che per il pesce allevato è diventata ormai la prassi aggiungere coloranti e additivi in modo da accontentare l’occhio del cliente. Inoltre, fortemente limitati nei loro movimenti, i pesci allevati risultano essere molto grassi e, se la loro dieta è ricca di vegetali, presentano percentuali minori di quegli omega-3 tanto importanti anche per la nostra salute.

Gli allevamenti intensivi, inoltre, nascono con lo scopo di produrre tanto col minimo sforzo. Gli animali vengono quindi ammassati in spazi ben al di sotto di quanto avrebbero bisogno, e quel che ne deriva è un aumento dello stress, dell’aggressività e delle patologie. Di conseguenza, per ridurre la trasmissione di malattie nell’allevamento, i pesci vengono alimentati con mangimi ricchi di antibiotici. Con il risultato che consumare alimenti provenienti dalla maggior parte degli allevamenti intensivi contribuisce ad aumentare l’antibiotico-resistenza nella popolazione.

Lo spreco idrico è altrettanto drammatico: gli allevamenti ittici sfruttano grandi quantitativi d’acqua che provengono dai fiumi riducendo così le disponibilità per l’agricoltura e la popolazione locale.

Ogni volta, dunque, arriviamo alla triste conclusione che il più grande nemico della sostenibilità sia l’uomo stesso, che prepone sempre il proprio piacere e il divertimento alle responsabilità, senza rendersi conto che “La più grande minaccia al nostro pianeta è la convinzione che lo salverà qualcun altro” (cit. Robert Swan).

Meditate gente, mediate.

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